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Il romanticismo e l'impero della cultura maschileFrancesca da Rimini

1. Il silenzio della cultura femminile
Nella altre pagine abbiamo visto che il fenomeno della morte della donna all'interno del rapporto di coppia non è un fenomeno marginale o occasionale, ma sembra piuttosto stabilmente radicato su una serie di posizioni culturali (pregiudizi) che sono più o meno diffusi nella nostra società. Il problema quindi è culturale e deve essere affrontato con strumenti culturali.  
            Come dobbiamo qualificare la cultura nella quale si collocano questi pregiudizi? In quanto segue noi chiameremo questa cultura - che è poi la nostra cultura - "maschile". Il fenomeno della morte della donna nel rapporto di coppia non manifesta altro che un aspetto di questa millenaria prevalenza della cultura maschile. Questa cultura la chiamiamo “maschile” perché è stata sviluppata lungo secoli e secoli in cui gli unici a possedere il diritto di parola erano i maschi, ma spesso la ritroviamo anche nelle donne: la ritroviamo in effetti in tutti gli esseri umani che fanno parte di questo nostro mondo.
            Parlare di “cultura maschile” potrà, a taluno, apparire fazioso; forse qualcuno vorrà esclamare: 
“…che cultura maschile e cultura maschile…! La cultura è patrimonio comune dell’umanità e non ha necessariamente un sesso… "
In una prospettiva del genere il parlare di una “cultura femminile negata” o di un “predominio della cultura maschile” potrebbe sembrare una forma stantia di veterofemminismo, tutta intesa a contrapporre, a dividere il mondo in due categorie incomunicabili, maschile e femminile. 
            Il modo con cui noi parliamo di “cultura femminile negata” e di “predominio della cultura maschile” non ha niente di ideologico o di sessista. E’ la descrizione di un dato di fatto. Al contrario a noi pare che un atteggiamento sessista e discriminatorio sussista in coloro che negano questo dato di fatto cioè in coloro che negano che si possa parlare di una cultura femminile negata.
            In primo luogo specifichiamo meglio cosa intendiamo, in questo contesto, per cultura. Non intendiamo la cultura intesa come precetti generali o modi di vivere. E nemmeno la cultura in una accezione generale che ingloba anche le arti letterarie e figurative;  intendiamo qui, con “cultura” le principali categorie del pensiero: la morale, la teoretica, l’estetica e la politica: intendiamo le discipline che cercano di rispondere a domande come: cosa è giusto, cosa è ingiusto? Cos’è la realtà? Come è fatta? Come la possiamo conoscere? Cos’è la bellezza? Quali sono le regole della convivenza civile? In due parole intendiamo essenzialmente la ricerca in campo filosofico e scientifico.
            Per convincere il lettore che abbiamo ragione iniziamo con una lista di nomi: Talete, Anassimene, Anassimandro, Parmenide, Eraclito, Pitagora, Gorgia, Protagora, Socrate, Platone, Aristotele, Euclide, Epicuro, Plotino, Seneca, Marco Aurelio, Sant’Agostino, Boezio, San Tommano, Avicenna, Fibonacci, Erasmo da Rotterdam, Spinoza, Galileo, Newton, Cartesio, Leibnitz, Hume, Kant, Ficht,Faraday,  Shelling, Maxwell, Hegel, Marx, Nietzche, Bohr, Einstein, Russel, Carnap, Heidegger, Popper, Lakatos… abbiamo dimenticato qualcuno? Certo che sì… ma di una cosa possiamo essere sicuri: non abbiamo dimenticato nessuna donna. Tra gli esseri umani che hanno definito la tradizione del pensiero occidentale non c’è nemmeno una donna. [Senza voler dare giudizi di valore non si può paragonare Ipazia a Euclide o Rosa Luxenburg a Marx]. 
            La cosa potrà apparire a qualcuno irrilevante. Ma chi sa  quanto potere vi sia dietro il pensiero, dietro il concetto di scuola di pensiero non potrà a questo punto far finta di niente. E dovrà ammettere che esiste un predominio culturale maschile. Più precisamente dovrà ammettere che la nostra tradizione intellettuale è stata integralmente opera di uomini ed è quindi lecito parlare di “cultura femminile negata”.
Ci sono obiezioni possibili? Certo che sì. In primo luogo esiste una obiezione che chiameremo l’obiezione del “maschilista esplicito”  che suona più o meno così:
“Se le donne non sono in quella lista è perché in effetti le donne non avevano niente da dire. Ciò che la lista dimostra è che le donne non sono capaci di uno sforzo intellettuale indipendente e originale”.
Posta in questi termini l’obiezioni è talmente ottusa da non meritare nemmeno una risposta: più che una obiezione pare un insulto e niente di più. Il maschilista esplicito confonde il fatto con il valore: è noto infatti che alla donna, in gran parte della storia occidentale erano interdetti gli studi superiori ed è evidentemente scorretto confondere un limite oggettivo, fattuale, fondato su determinate condizioni storiche, con un limite delle potenzialità della donna.
Essendo evidentemente banale argomentare contro una simile obiezione sforziamoci di inventare qualche argomento a suo sostegno, che vada oltre il mero insulto. Il maschilista esplicita potrebbe, tanto per cominciare, suggerirci di dimenticare, per un istante, le differenza di genere e concentrarci su quelle sociali. Ci vuol poco a prendere atto che quella lista è fatta in gran parte di uomini nobili, o ricchi: da Platone a  Boezio fino a Russel troviamo persone benestanti. Non troviamo poveri o quasi. Questo vuol forse dire che i poveri sono incapaci di uno sforzo intellettuale? No; certo, le condizioni economiche impedivano spesso ai poveri di esercitare la ricerca speculativa però, a ben guardare ci sono delle eccezioni: Kant era figlio di un ciabattino, Faraday da giovane faceva il rilegatore …Ecco insomma che anche i poveri nel 700 e nell’800 riuscivano a dare un loro contributo, talvolta cruciale al pensiero: la povertà era un ostacolo, ma non insuperabile. Perché questo non vale anche per la condizione femminile? Non vi è qui un’assimetria che sembra portare buona conferma al fatto che la donna è incapace di produrre una forma di pensiero veramente indipendente e creativa?
            Rinforzata a questo modo l’obiezione sembra assumere maggiore rispettabilità. Tuttavia il parallelo e l’asimmetria con le differenze sociale è capzioso e illusorio. Difatti il figlio di un ciabattino poteva ben divenire un “clerk”, anche in epoche in cui le differenze di classe erano cruciali, ma in quanto tale smetteva di far parte della categoria dei ciabattini. Vale la pena di osservare invece che una donna non poteva cessare di essere donna. Per essere più chiari l’asimmetria avrebbe –forse - un qualche tipo di valore se si potesse mostrare che fanno parte della lista dei ciabattini e dei rilegatori: se Kant avesse fatto, come suo padre, il ciabattino e se la nostra storia annoverasse, tra i massimi pensatori della nostra storia un ciabattino l’asimmetria esisterebbe. Ma Kant non era un ciabattino. Era il figlio di un ciabattino divenuto professore. E allo stesso modo Faraday non era un rilegatore: era un ex rilegatore divenuto professore. Ecco insomma che la nostra tradizione culturale ha sempre ammesso dei percorsi sociali che consentivano a persone particolarmente dotate di farsi avanti nel mondo della ricerca: tuttavia in questo stesso passaggio essi perdevano l’appartenenza alla loro stessa classe sociale e divenivano qualcosa di diverso. Lo status di donna non è invece  qualcosa che si acquista o si perde con il tempo e questo rende del tutto insensata l’obiezione del "maschilista esplicito".
            Vi è tuttavia un’altra obiezione possibile: si potrebbe concedere che in effetti le donne sono sempre state interdette allo studio e all’esercizio della libera ricerca e che questo spieghi a sufficienza il perché le donne non sono presenti in questa nostra lista. Tuttavia si potrebbe aggiungere che questo non consente di parlare di “predominio della cultura maschile” o di “cultura femminile negata”. 
“Come si può” potrebbe osservare qualcuno “ridurre Platone al suo sesso? Far fare la stessa fine a Galileo, a Newton…? Essi sono i maestri del pensiero occidentale e il loro pensiero è talmente grande da prescindere e sublimare la condizione sessuale”.
Chiamiamo questa obiezione – che molti troveranno condivisibile - l’”obiezione del maschilista mascherato”. Egli è disposto a concedere che le donne sono state in passato discriminate; ma nega tuttavia che esse siano depositarie di un propria specificità culturale.
Questa obiezione va considerata con una certa cautela: è in parte condivisibile l’idea che il pensiero di questi uomini non può essere interamente collassato sulla loro condizione sessuale: sarebbe folle e ingeneroso davvero. Tuttavia l’obiezione è impregnata di una retorica culturale che non regge alla prova dei fatti. Essa presuppone che alcuni uomini, nel corso dei secoli siano riusciti a comprendere così bene le donne che sono stati capaci di condensare, nel pensiero occidentale, anche il punto di vista delle donne:  e questa è un’affermazione totalmente risibile. Peraltro, al di là della suo carattere apparentemente neutro sottintende un pregiudizio impressionante: il mondo non ha bisogno delle donne, nel senso che gli uomini hanno parlato e possono continuare a parlare anche per loro.
Saremo disposti ad ammettere che certi aspetti culturali femminini possano pur essere presenti in alcuni pensatori della cultura occidentale, certo. Ma non dovremmo certo essere disposti a dichiarare che il mondo femminile sia rappresentato nella nostra tradizione culturale. Ecco quindi che dobbiamo ammettere che la nostra storia è una storia solo a metà: una buona metà dell’umanità non ha potuto in realtà parlare, non ha potuto sviluppare le sue proprie forme di ragionamento i suoi propri schemi morali. Questo è il silenzio della cultura femminile. Non è ideologia, è un dato di fatto.                                   
 
2. Il silenzio della cultura femminile e il terzo pregiudizio
Questo è dunque il punto di partenza per comprendere il fenomeno della morte della donna nel rapporto di coppia. Esso si colloca in un contesto culturale in cui la voce della donna non si è mai sentita, al punto che è lecito parlare di un silenzio della cultura femminile. E’ peraltro vero che l’emancipazione femminile, negli ultimi anni, ha cambiato parzialmente le cose: oggi vediamo donne attive in professioni da cui fino a pochi anni fa erano escluse. Ma il contesto di cognizioni e valori in cui queste stesse donne operano è stato costruito su secoli e secoli di giudizi e pregiudizi fondati sulla cultura maschile e questo limita fortemente le possibilità delle donne; così  l'emancipazione femminile ha lavorato, come poteva, sul piano concreto, dei diritti positivi. Non ha potuto lavorare che in minima parte, per ora, sul piano culturale sul piano cioè dei concetti e delle forme di pensiero.  E per altro se oggi vediamo donne attive nella società civile come imprenditrici, professioniste è altrettanto vero che le donne continuano ad essere escluse in modo quasi programmatico dalle massime cariche nella politica e da quegli ambiti di ricerca accademici che hanno una maggiore ricaduta nel nostro modo di pensare (filosofia, matematica e fisica). In alcuni di questi campi, come la matematica, l'esclusione viene quasi legittimata da prassi e posizioni ufficiali che esplicitano senza reticenze la discriminazione.
Insomma, bando ad ogni ottimismo: viviamo in un mondo a metà, in cui solo una parte dell’umanità è veramente libera di dar voce alle proprie esigenze e alle proprie aspirazioni: abbiamo letto Platone, Aristotele, Plotino, Sant’Agostino, l’Aquinate, l’Alighieri, Cartesio, Newton, Hume, Kant, Ficht, Hegel… e abbiamo pensato che il loro pensiero fosse il pensiero dell’Umanità; in realtà si trattava solo di una metà dell’umanità, la metà maschile; quella femminile è stata per secoli ridotta al silenzio. 
E' peraltro vero che si devono fare dei distinguo: se è un dato di fatto il predominio della cultura maschile con questo non si vuole negare che alcuni uomini abbiano potuto produrre modi di pensare e di vedere che non sono tipicamente maschili. Ci sono state, in passato, forme di pensiero in cui emergevano atteggiamenti e modi di pensare genuinamente femmini: un esempio tipico è l'opera dell'Aquinate. Ricercare, nella nostra cultura atteggiamenti e modi di vedere la realtà maschili o femminili è un'impresa decisamente ardua e nient'affatto immune da rischi. Se davvero vogliamo intraprendere questa perigliosa strada dobbiamo essere disposti a liberarci di alcuni pregiudizi storici e particolarmente dall'idea ingenua e un po' volgare che gli ultimi duecento anni siano stati il tempo di ogni progresso e di ogni umano miglioramento. 
Ad esempio, è diffusa l'idea che l'emancipazione femminile sia stata affare degli ultimi due secoli: l'800 e il '900 ci vengono spesso presentati come i secoli in cui la donna fa la propria comparsa come protagonista indipendente e come vera e propria artefice della propria vita. Se tuttavia si passa dal piano dei diritti attivi  al piano culturale è abbastanza difficile condividere tout court questo modo di vedere le cose. Nell'epoca moderna le prime donne attive sul piano culturale e nel mondo accademico sono state prodotte dal '600; nel '700 il processo è continuato, accentuandosi; ma si è venuto ad arenare proprio all'inizio dell'800 per poi riprendere alla fine dello stesso secolo. La storia è un po' meno lineare di quanto supponiamo. In questa fase di interruzione dell'emancipazione femminile si colloca uno tra i fenomeni più rivoluzionari degli ultimi secoli: il romanticismo. Se mai l'umanità ha prodotto una forma di pensiero e di visione della realtà tipicamente maschile e antifemminile, questa è il romanticismo. Mai una donna avrebbe potuto concepire il trascendentale romantico, mai una donna avrebbe potuto concepire la dialettica Hegeliana: lo stesso linguaggio della scienza, dell'epistemologia, della politica finisce, in quell'epoca, per infarcirsi di metafore sessuali maschili, per cui si dice che la scienza "penetra la realtà" (Tommaso d'Aquino sarebbe inorridito) e che l'espansione coloniale serve a "penetrare le culture inferiori" e a "disseminarle di civiltà". La situazione è resa particolarmente sgradevole dal fatto che,  come è noto, il romanticismo non è una corrente di pensiero definitivamente superata: il terzo pregiudizio su cui si fonda in modo cruciale il fenomeno della morte della donna è un pregiudizio tipicamente romantico.         
Ecco dunque che questi nostri anni ci pongono di fronte a fenomeni davvero contrastanti: da un lato l'indubbio avanzamento della donna nella società, dall'altro il permanere, nella cultura, di pregiudizi e modi di vedere esclusivamente maschili, che minacciano la vita della donna e non di rado costituiscono degli ostacoli insormontabili alla libera manifestazione ed espressione del proprio pensiero . E' dunque sul piano culturale che si deve operare.

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