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L'Avvenire, 24/4/1987

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Ramelli "Anni delle Spranghe", Processo
I Testimoni: Fummo picchiati scelti a caso nel mucchio


MILANO. (G. Pes.). Gente comune. Gente passata per caso nel posto sbagliato e per dir di più, il giorno meno adatto. E' così che le vittime ricordano gli "anni delle spranghe" a Milano. Quegli anni Settanta in cui hanno inciampato, su cui sono caduti riportando anche lesioni permanenti.
    Simpatizzanti di destra? Loro dicono di no, di non essersi mai occupati di politica: passavano per caso e nulla di più. Fu così anche quel 31 marzo del 1976 quando subirono l'assalto al bar Porto di Classe, il locale indicato quale ritrovo preferito dei "neri". Ed è parlando di errori e di sfortuna che quei protagonisti, oggi testimoni al processo Ramelli, hanno raccontato la loro disavventura. Marina Mirelli e Sergio Ricotti, all'epoca fidanzati, s'erano dati appuntamento proprio da quelle parti. Erano sul marciapiede di fronte al locale. Non fecero in tempo ad accorgersi di nulla: lei ricorda un fortissimo colpo alla schiena, un'affannosa corsa in cerca di riparo. Si rifugiò in un negozietto e poi venne ricoverata al Policlinico: guarì in 40 giorni. Lui, l'attuale marito, se la cavò con una ferita al capo: dieci punti.
Davanti al bar c'era anche un gruppo d'amici. Bruno Carpi, Giovanni Maida e Fabio Ghilardi stavano chiacchierando. "Ero di spalle e all'improvviso venni colpito alla testa - rammenta Carpi - Caddi, persi i sensi e quando riaprii gli occhi era tutto finito. Fui portato in ospedale". Il referto parla di trauma cranico e di un'operazione: impiegò tre mesi a guarire.
    Ghilardi mancava dal bar da circa un mese e quando tornò, proprio quel giorno, gli "fecero la festa". "Ricordo un colpo in testa - spiega - e poi più nulla: mi svegliai all'ospedale convinto di essere rimasto coinvolto in un incidente stradale. Avevo riportato lo sfondamento della scatola cranica, subii diverse operazioni e da allora sono soggetto a crisi epilettiche".
    Poi c'è Maida. Lui non si è presentato. Tra tutti è quello nelle condizioni peggiori: vive su una sedia a rotelle.
    Fabrizio Rossi invece passeggiava. Vista la confusione cominciò a scappare. Venne inseguito. Si rifugiò nel gabinetto di un distributore di benzina. "Ma non servì a nulla - racconta - mi raggiunsero anche lì. Distrussero tutto e mi colpirono più volte ".
    Questo quanto successe quel fatidico giorno, quando trenta, quaranta o forse cento persone (erano militanti di Avanguardia Operaia e dei comitati antifascisti) assaltarono il bar. Ma anche prima e anche dopo la guerriglia non conobbe tregua. Gente fermata lungo le strade e derubata dei documenti. Altri picchiati senza un motivo, rasentando il paradosso.
    "Stavo andando in Comune per sposarmi - ricorda senza troppo rancore Giuseppe Tinti -. All'uscita dalla metropolitana incrociai alcuni ragazzi. Uno disse "è un fascista" e così mi fecero gli auguri mandandomi all'ospedale: rimasi ingessato per 40 giorni. Avevo le cervicali lese". L'ennesimo orrore.


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