Archivio Sergio Ramelli

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Il Messaggero, 28/3/1987

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Omicidio Ramelli. Al processo parlano Costa e Ferrari Bravo

All'epoca pensavamo di possedere la verità


MILANO - - Cambia il protagonista, non cambia la scena. Come Marco Costa il giorno prima, Giuseppe Ferrari Bravo ha cercato ieri di spiegare, o forse di "spiegarsi", perché, dodici anni fa, partecipò all'uccisione di un avversario politico. Costa e Ferrari Bravo sono due dei dieci imputati dell'omicidio di Sergio Ramelli, il giovane neofascista aggredito a colpi di chiave inglese il 13 marzo 1975 e morto dopo una lunga agonia. Ma loro due sono gli esecutori materiali. Un'accusa che non respingono. Anche se, appunto, cercano di far capire che quella organizzata da un gruppetto di "Avanguardia operaia" contro il "fascista" doveva essere una semplice missione punitiva. O "pestaggio politico" come si usava dire a quei tempi. "L'uccisione - ha spiegato Ferrari Bravo, che adesso ha 36 anni, fa il medico e, pur essendo agli arresti domiciliari, ha ottenuto di poter lavorare in ospedale in determinati orari - non rientrava nella nostra logica. Purtroppo nella vicenda ha giocato anche la nostra incoscienza. Per quanto mi riguarda, era la prima volta che partecipavo ad un'azione del genere. Non avevo mai alzato le mani contro qualcuno. Però il senso del dovere mi impedì di rifiutare la proposta quando Roberto Grassi ce ne parlò. Sì, lo so che, dette oggi, queste cose sembrano assurde. Ma fu proprio così. A quell'epoca avevamo la presunzione di avere in mano la verità".
    Anche "Aldo" (cosi veniva chiamato dagli amici Ferrari Bravo) così come Costa e parecchi altri non conosceva Ramelli.
    "Mai visto prima. Lo vedemmo arrivare in motorino, Costa gli diede un colpetto al gomito e... ricordo poco dell'aggressione. Non so, penso di averlo colpito una volta, al massimo due. Poi sentimmo una donna gridare da una finestra e scappammo".
    L'interrogatorio di Ferrari Bravo ricalca quello di Marco Costa. C'e la stessa voglia di tentare di far capire che "fu un'esperienza terribile", Il medico milanese ha usato proprio queste parole, quando la voce gli è rimasta come strozzata in gola per l'emozione ed è parso che stesse per piangere. "Mi sotto reso conto allora di quanto sia diverso andare in corteo e gridare 'morte ai fascisti" dall'uccidere veramente".

Gabriele Tacchini


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