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Il Tempo, 27/3/1987

Ho ucciso Ramelli perché era un dovere

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L'assassinio del giovane di destra a Milano
Ho ucciso Ramelli perché era un dovere

Milano, 24 marzo

    "La mia grande colpa è quella di aver messo in disparte la coscienza per la mia ideologia". Così si è espresso davanti alla corte d'assise Marco Costa, medico anestesista, indicato nel capo d'imputazione come coautore materiale dell'omicidio di Sergio Ramelli, il ragazzo del Fronte della Gioventù assassinato a colpi di chiave inglese sulla testa nel marzo di dodici anni fa da un commando di Avanguardia Operaia.
    Occhiali e fisico da intellettuale, capelli in fase di abbandono, baffetti neri e folti, Marco Costa ha ricostruito la sua posizione processuale con una serie frasi di contrizione per quel gesto inconsulto che, secondo lui, doveva rappresentare una semplice lezione, un pestaggio e che invece si e trasformato in dramma. Dopo aver sostenuto di essere stato convinto dal capo del servizio d'ordine dì Avanguardia Operaia, Roberto Grassi (morto suicida alcuni anni fa), a condurre l'aggressione al "fascista Ramelli", di cui gli sarebbe stata mostrata la fotografia alcuni giorni prima del fatto, Costa ha così descritto le fasi dell'agguato.
    "Quando lo vidi arrivare, mi sentii tremare le gambe. Ci guardammo negli occhi e lui cercò di scappare. Mi resi conto che davanti a me non avevo più un fascista, ma Ramelli, un ragazzo come me. E qui comincia la mia colpa. A quel punto avrei potuto dire basta, andarmene. Invece rimasi per il senso del dovere. Avrei potuto colpirlo in faccia non sul capo. Lui urlava, cercava di scappare, e io lo colpivo senza capire dove".
    In quel momento, si dice negli atti istruttori, un'anziana donna, che, affacciata alla finestra, aveva assistito all'aggressione si mise a gridare: "Basta, basta assassini". Ma nessuno le diede retta. Il giorno dopo i
Giornale dissero che Ramelli era in coma. "Passai giorni terribili. Senza mangiare. Col terrore di essere scoperto, prigioniero di questo orrore che avevo compiuto. Da allora non sono più riuscito a gridare 'morte ai fasci' come avevo fatto per anni. Era come se per me fosse cominciata una fuga che adesso dura da anni. Sergio Ramelli mi torna in mente giorno e notte".
    Ad un certo punto l'mputato si è rivolto alla corte ed ha esclamato: "Ho le tasche pien della violenza: andatemi voi a capire come mai gente che odiava la violenza ha potuto uccidere". Davanti a questa domanda il presidente, Antonino Cusumano, ha cercato di approfondire il tema dell'autenticità del pentimento.
"Un anno dopo, però, lei fu ancora tra quelli che presero d'assalto, anche se forse da parte sua non materialmente, il bar della città studi in cui tre persone rimasero gravemente ferite e poi si mise ad allestire lo schedario trovato nel covo di via Bligny. Come mai?".
    Costa ha cercato di minimizzare.
    Ha detto che le schede e le fotografie raccolte dovevano servire per una mostra, ha aggiunto che frequentava l'abbaino di via Bligny come garconniere per portarci la fidanzata.
    Ha cercato poi di inquadrare le responsabilità dei coimputati, ma il momento più intenso dell'udienza di oggi è stato quando il presidente, malgrado l'opposizione dell'avvocato Ludovico Isolabella, difensore di Costa, ha deciso di aprire il pacco contente i corpi di reato per mostrare una grossa chiave inglese, il triste simbolo di tante violenze, una sorta di precursore della p38 e del mitra. Costa ha guardato la chiave inglese (una cinquantina di centimetri di lunghezza) ma non ha voluto toccarla. Si è anzi ritratto, come terrorizzato a quella vista. 
    "no né la mia - ha detto - questa è una Hazet 26, più corta di tre centimetri e più leggera". In aula c'è stato un lungo attimo di silenzio. Il presidete ha scosso il capo ed ha riposto l'arnese sul tavolo.
    L'interrogatorio di Costa continuerà domani, per approfondire gli anni di piombo.
Claudio Garlaschi


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