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Il Tempo, 28/3/1987

Gli assassini di Ramelli si pentono...

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(richiamo in prima pagina)
Gli assassini di Ramelli si pentono in aula
(all'interno)

E spunta una lacrimuccia

Giuseppe Ferrari Bravo nel motivare il terribile omicidio con le spranghe nei confronti di un avversario politico di diciassette anni ha trovato toni patetici

Milano, 27 marzo
    Secondo atto di dolore al processo contro gli autori delle violenze politiche avvenute negli anni Settanta e culminate con l'uccisione dell'estremista di destra Sergio Ramelli, al quale un commando di Avanguardia Operaia sfondò la testa a colpi di chiave inglese.
    Dopo il patetico ravvedimento espresso ieri da Marco Costa, anche l'altro autore materiale del delitto ha manifestato oggi tutta la sua contrizione per l'esito dell'aggressione al giovane avversario politico, ammazzato per odio a pochi metri dalla sua abitazione il 13 marzo 1974.
    L'imputato di oggi è andato anche oltre, perché si è lasciato scappare perfino una lacrima. In dodici anni possono accadere molte cose, comprese le maturazioni ed i pentimenti ai quali gli imputati sarebbero arrivati però in maniera non del tutto spontanea visto che quando furono arrestati negarono decisamente gli addebiti e qualcuno si rifiutò anche di rispondere alle domande degli inquirenti.
    Poi, una volta messi davanti a contestazioni impossibili da smontare, hanno deciso di cambiare atteggiamento.
Dopo Marco Costa, il medico anestesista ascoltato ieri e che ha espresso in maniera quasi eccessiva la sua disperazione per avere materialmente contribuito a determinare la morte dl Ramelli, oggi è stata la volta di Giuseppe Ferrari Bravo l'altro imputato indicato come coautore dei colpi inferti alla testa del simpatizzante del Fronte della Gioventù. Ferrari Bravo, medico trentaseienne, si è presentato al pretorio in spezzato grigio-blu da manager, un velo di barba, mascella volitiva (anche se lui stesso si definisce timido) e un gran desiderio di non rivivere quel terribile momento dell'aggressione.
    Dopo aver ricostruito le fasi del suo cammino politico prima di approdare ai Comitati Unitari di Base e quindi ad Avanguardia Operaia, ha spiegato che la decisione di colpire Ramelli "venne dall'alto". Io - ha detto - non Io avevo mai visto prima. Doveva essere un avvertimento, un semplice pestaggio ad un fascista. Prima di allora non avevo mai alzato le mani su nessuno. Avrei potuto dire di no a chi me lo propose, ma il senso del dovere, l'impegno politico, mi impedirono di rifiutare l'incarico. Lo so che dire queste cose oggi può sembrare assurdo, maè~ la pura verità".
Poi la descrizione del terribile agguato. "Quando vidi Ramelli arrivare e deporre il suo ciclomotore, sentii le gambe tremare. Lo colpii una volta, due al massimo. Poi le urla di una donna dal balcone ci indussero a scappare". Oramai però Ramelli aveva il cranio sfondato. Due settimane di coma e poi la morte.
    "Quando seppi dell'esito dell'aggressione fui preso dal panico. Mi resi conto di quanta differenza esista fra il gridare 'morte ai fascisti' lungo un corteo e l'uccidere davvero". A questo punto la voce dell'imputato si è fatta roca fino a spegnersi in gola. Giuseppe Ferrari Bravo si è portato una mano sugli occhi. 'Chiedo scusa, ma io sono timido', ha mormorato. Il suo interrogatorio continuerà lunedì prossimo.
    In precedenza la corte aveva portato a termine la deposizione di Marco Costa, cominciata ieri. L'imputato ha risposto alle domande del pubblico ministero e dei difensori, rinnovando i toni di un drammatico Amarcord e, per ribadire l'eccezionalità di quel gesto violento, ha spiegato che nella sua classe, al liceo, su trenta compagni, venti erano fascisti.     'Non per questo - ha concluso - li presi di mira come vittime di aggresioni".
    "Grazie a Dio". ha commentato a bassa voce il presidente. "Per fortuna!" devono aver pensato anche alcune persone tra il pubblico che furono compagne di scuola di Costa. Ora la parola d'ordine è respingere la logica di morte. Le chiavi inglesi, dicono, le avevamo per difenderci dai fascisti.
    Purtroppo nel caso di Sergio Ramelli sono diventate uno strumento di morte. Ed ora, a distanza di dodici anni, sono tornate a fare paura, ma a chi le aveva adottate.
Claudio Garlaschi


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