Archivio Sergio Ramelli

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Il Giornale, 27/3/1987

Caso Ramelli, il massacro...

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Il drammatico racconto di Marco Costa che uccise dodici anni fa lo studente di destra
 Caso Ramelli, il massacro minuto per minuto
lo sprangai, lui cadde, io lo colpii ancora 

In aula le chiavi inglesi usate nei pestaggi dagli ultrà rossi

    "Al mio fianco avevo soltanto Giuseppe Ferrari Bravo. Eravamo in via Paladini da pochi minuti quando, girandomi, vidi questo ragazzo che legava il motorino. Ramelli mi vide, io vidi lui, ci guardammo negli occhi e solo in quegli istanti mi resi conto che avevo davanti un uomo, non un fascista". Con voce ferma, in un'aula piombata in un silenzio totale rotto soltanto dal ronzio che arriva in lontananza di un martello pneumatico, Marco Costa racconta come sprangò a morte lo studente Sergio Ramelli. "Emotivamente volevo andare via - continua - ma sentivo quel senso del dovere che mi diceva d'andare avanti. E andai avanti, questa è la mia colpa più grave... Avrei potuto colpirlo in faccia, ma avevo paura di sfigurarlo... per questo gli spostai le braccia dalla testa e feci cadere la chiave inglese". È il lento racconto di un massacro quello che Marco Costa ricostruisce attimo dopo attimo.
    Rivede le sequenze di quel 13 marzo di dodici anni fa quando una squadra del servizio d'ordine di medicina di Avanguardia operaia decise la sorte di uno studente di destra, un "nemico" di 19 anni. "Una signora lì vicino si mise ad urlare - continua - Ramelli anche, cercò di scappare ma inciampò nel motorino e io anche. Cadendo gli diedi un altro colpo. Mi guardai intorno per qualche istante e vidi Gian Maria Costantini (che aveva solo un ruolo di copertura perché "troppo agitato" n.d.r.) con la chiave inglese in mano". Poi è la fuga, l'incontro con gli altri e una frase buttata là. "Non gli abbiamo fatto niente, urlava ancora".
    Anche per Costa - come già aveva detto Luigi Montinari - la verità arriva il giorno dopo dai giornali quando apprende che Sergio Ramelli è in coma. Nel racconto di Marco Costa che è accusato, oltre che del delitto, del triplice tentativo di omicidio avvenuto durante la devastazione al bar Porto di Classe (nel marzo '76, un anno dopo il pestaggio mortale dello studente) e di aver gestito l'abbaino-covo di viale Bligny, non si fa parola del ruolo che ricoprì l'altro picchiatore, Giuseppe Ferrari Bravo. Di lui accenna solo per dire che era al suo fianco durante il pestaggio. Marco Costa è rimasto seduto davanti al presidente della Corte d'assise per tre ore e mezzo, ma il suo interrogatorio non è ancora finito. Oggi ci sarà l'ultimo atto con le domande del pm, delle parti civili, della difesa. Ma già ieri ha detto molto, rievocando la sua storia, dalla militanza nella Gioventù studentesca, un gruppo cattolico, alle simpatie per i gruppi della sinistra extraparlamentare durante il liceo, all'ingresso in Avanguardia operaia all'università e in seguito nel servizio d'ordine. Una storia che Costa, come già Montinari, lega "al clima di quegli anni". Quando -dice lui - non si poteva fare una scelta fra violenza e non violenza, ma soltanto scegliere fra i vari tipi di violenza. Quindi, quali "strumenti" adoperare per pestare i "fascisti". Quello degli "strumenti" usati contro Ramelli è così divenuto un tema conduttore dell'udienza di ieri.
Fino a quando il presidente ha chiesto che venisse portata in aula una delle chiavi inglesi trovate nel covo di viale Bligny, una sbarra di ferro di almeno mezzo metro. Il presidente l'ha presa in mano, quasi per mostrarla all'imputato che non l'ha toccata limitandosi a dire. "No, la mia era una Beta 35, un po' più piccola".
    Ma con una chiave inglese come questa non avete mai pensato cosa poteva succedere? "Devo fare uno sforzo per tornare alla logica di quegli anni che non è più mia. Centinaia di giovani sono stati colpiti con questi strumenti, io stesso signor presidente, questa è la cicatrice, ma non sono morti. Io non sono morto... Ramelli sì. Non eravamo professionisti che sapevano... dosare".
    Dopo la morte di Ramelli, Costa ricorda le reazioni dei coimputati: "Scalza crollò subito e lasciò il servizio d' ordine". Montinari si defilò anche lui pochi mesi dopo. Ma Costa no, continuò. Perché? "Se ero emotivamente minato - dice - ideologicamente ero ancora un comunista".
    E proprio sull'onda di questa ubriacatura ideologica Costa insiste, partecipa seppure da lontano all'assalto al bar Porto di Classe, lavora per arricchire gli archivi dell'abbaino di viale Bligny. E a questa militanza ad ogni costo non riesce a dare, ora, una giustificazione plausibile. Il suo "pentimento" s'incrina, perché con un omicidio sulle spalle il momento di fermarsi era già passato da un pezzo.
Leonardo Maisano


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