Archivio Sergio Ramelli

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Il Giornale, 27/3/1987

Il Katanghese non abita più qui

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ILo schizofrenico amarcord di un assassino che si dice pentito
 Il "Katanghese" non abita più qui
 

    Due aule giudiziarie dista fu pochi metri in linea d'aria, due processi uniti da una singolare circostanza: per gli imputati la giustizia è arrivata una dozzina d'anni dopo. In entrambi i casi erano ragazzi ai tempi dei loro crimini, adesso sono uomini fatti. Per un decennio abbondante hanno vissuto chi con un omicidio, chi con due rapimenti sulla coscienza; si sono trovati un lavoro rispettabile, si sono costruiti una famiglia, custodendo il loro segreto e forse intimamente convinti d'averla fatta franca. E c'è mancato poco, in tutti e due i casi, che andasse a finire così.
    Nell'aula della quarta sezione penale, cinque ragionieri e un procuratore legale sciorinano i loro ricordi di rapitori improvvisati. Nell'aula della seconda corte d'assise, dieci professionisti, quasi tutti medici, spiegano come si sprangava a morte, naturalmente senza volerlo, un 'fascista' di 19 anni. Assassini e rapitori hanno pressappoco la stessa età, maturi ultra tentenni dalla faccia pulita, il linguaggio curato, l'aria più o meno contrita. Avevano circa vent'anni nel '74 e '75 quando gli uni credevano di cambiare il mondo ammazzando un loro coetaneo e gli altri di cambiare la propria vita emulando l'anonima sequestri. 
    L'atmosfera dei due processi è anche la stessa, noiosa, cadenzata da un lamentoso amarcord di gioventù schizzofreniche: "Le mie condizioni economiche non erano favorevoli", si è giustificato il ragioniere rapitore. "Temevamo il colpo di stato", gli ha fatto eco lo sprangatore omicida.
    Meno male che ieri mattina, la madre di Ramelli non era in aula a sentire che Sergio, in fondo, è stato ucciso da "un peccato di presunzione". I suoi aggressori, all'epoca studenti in medicina, credevano che qualche colpo di spranga in testa non dovesse essere poi così grave. "Usatami il linguaggio della violenza senza conoscerlo", si è autocompatito Marco Costa. E il presidente della corte, sornione, gli ha fatto portare davanti una coppia di "Hazet 36", le chiavi inglesi con cui i "katanga" componevano la rima "fascio, dove sei?".
    L'insolito "riconoscimento" è stato seguito in silenzio dal pubblico, ma preceduto dalla rabbiosa reazione dell'avvocato difensore Isolabella: "Che senso ha mostrare delle chiavi inglesi qualsiasi, se non sono quelle usate contro Ramelli? Tanto vale, allora, chela corte vada a farsi un giro da Meazza, il ferramenta, per documentarsi".
    Mentre la corte vagliava in camera di consiglio l'opposizione del legale, gli spettatori, dietro le transenne, discutevano. La giustificazione degli assassini ("volevamo solo dargli una lezione") provoca scetticismo. "Vedrete ora cos'è una chiave inglese", preannunciava un signore ad alcuni ragazzini sbalorditi che non potevano ricordare.
    Dal fondo dell'aula, un giovane scrutava con un compagno il curioso quadro d'insieme che si godeva da quella prospettiva: l'imputato seduto di fronte al lungo banco dei giudici alle cui spalle s'innalza un gigantesco mosaico della giustizia romana sovrastata dall'aquila imperiale. "Lugubre ironia della sorte", commentavano.
    Ma il colmo del paradosso è incarnato nell'imputato: neanche con un grosso sforzo di immaginazione si riesce a togliere, a quel trentenne afflitto da precoce calvizie, la giacca grigia e la cravatta blu, più consoni ai suoi ricordi: l'eskimo, il fazzoletto rosso attorno al viso. Quando parla delle manifestazioni cui partecipava, pronto a tirar sassi e colpi di spranga, si riesce solo a vedere un maturo giovanotto con la fede al dito, la voce per suonare convincente, lo sguardo mite e lontano, seduto, un po' curvo e molto avvilito.
    Anche quando l'interrogatorio finisce e il presidente della corte ordina il "rompere le righe", Marco Costa, ex sprangatore cieco e obbediente, mantiene la sua aria triste, s'infila il cappotto, specifica a una giornalista curiosa che no, in questo momento non lavora, e si avvia in ufficio come dopo una giornata in ufficio.
    Molti sguardi lo seguono dubbiosi, come per radiografare dentro di lui quei rimorsi che adesso dichiara ai giudici ma che, allora, non bastarono a fermarlo.
e. ro.

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 CDRC Coro drammatico Renato Condoleo
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