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La Repubblica, 23/4/1987

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Il processo ai giovani che uccisero il figlio perché fascista
Parla la madre di Ramelli "Chiedo soltanto giustizia"
"Non posso perdonare, nessuno di loro ha mai detto 'Mi dispiace'. Il denaro che mi hanno mandato l'ho rifiutato"


MILANO - "Nessuno mi ha detto: mi dispiace. Niente in tutti questi anni Solo la scorsa estate mi è arrivata una lettera ". Tengono gli occhi bassi gli imputati mentre nell'aula silenziosa parla, con voce sommessa ma senza fremiti, la madre di Sergio Ramelli. Per due notti Anita Pozzoli Ramelli non ha chiuso occhio, nella tensione di doversi trovare davanti agli assassini di suo figlio, e non ha proprio la forza di raccontare in pubblico il suo dolore. Accompagnata dalla figlia Simona, ha atteso la chiamata del presidente nello studio dell'avvocato, lontano anche dai militanti con la faccia da paninari del Fronte della Gioventù che riempiono ogni spazio in fondo all'aula.
    Dietro i suoi occhiali spessi non ci sono lacrime, ma per l'emozione probabilmente le sue parole non corrispondono del tutto ai sentimenti. Un concetto però le è chiarissimo: "Voglio giustizia, la aspetto. Mi è arrivata una raccomandata con i soldi del risarcimento: dico la verità, ci ho sofferto. Sarà anche una prassi giusta, non so, ma io preferisco che vada avanti la giustizia".
    Quei 200 milioni che gli imputati hanno messo insieme per "risarcire" la famiglia Ramelli, e che potrebbero, se accettati, costituire una attenuante al momento della sentenza, sono stati rifiutati.

Il marito morì 7 anni fa
Anche se la signora Ramelli - il marito è morto sette anni fa - non gode certo di condizioni economiche agiate. Il processo si sta avviando a conclusione: hanno già deposto gli imputati, e quasi tutti - tranne Antonio Belpiede e Brunella Colombelli - hanno ammesso le proprie responsabilità. Quel 13 marzo di 12 anni fa Anita Ramelli tornava a casa con la figlia piccola, quando vide un capannello di gente in via Paladini, il motorino di Sergio in mezzo alla strada e i vicini che la spingevano via. Da pochi minuti il "commando" del servizio d'ordine di Avanguardia Operaia, facoltà di medicina, aveva "punito il fascista" sfasciandogli la testa con le chiavi inglesi, ultimo atto di una lunga serie di intimidazioni che il ragazzino diciottenne aveva dovuto subire a scuola, l'istituto tecnico Molinari, tanto che, su consiglio di un collegio docente non proprio coraggioso, aveva dovuto cambiare istituto. "Sergio odiava la violenza - ha detto la madre - ma l'ultimo anno a scuola la situazione si era fatta pesante. Decidemmo di toglierlo, e ci sentivamo più tranquilli: studiava, giocava a pallone, a casa di politica non parlava mai. e invece cominciarono le telefonate di notte, con la musica di Bandiera rossa, e le scritte vicino a casa: "sei il primo della lista". Mamma non faccio niente, non può succedere niente, mi diceva mio figlio ". E invece qualcuno decise che si doveva dare una "ripassatina" al "fascistello". Il processo finora non ha chiarito chi prese la decisione, oltre al responsabile del servizio d'ordine di Ao a Città studi Roberto Grassi, morto suicida alcuni anni fa.
    Ramelli venne colpito troppo duramente, e finì in coma all'ospedale. Le disse qualcosa in un momento di lucidità?, ha chiesto il presidente Consumano. "No, mi fissava negli occhi e rantolava  - gli ha risposto la signora Ramelli. - Non parlava, ma capiva tutto. Un giorno gli chiesi se gli faceva male e lui mosse la testa per dirmi no ". Mentre Sergio era ancora in coma, anche il fratello Luigi fu preso di mira: "Era andato in ospedale col padre, tornò a casa in tassì e trovò un guappo ad aspettarlo. Scappò nel portone, perse pure il portafoglio. Hai 48 ore di tempo se non vuoi fare la stessa fine, gli urlarono. Aveva 20 anni: lo mandammo via da Milano".
"Insulti per telefono"
Quarantatré giorni dopo l'aggressione, Sergio morì in ospedale. "La sera stessa cominciarono gli insulti ", ricorda la madre. Ogni sera suonava il telefono, dalle 8 alle 10 e mezzo, e se i genitori già distrutti dal dolore non rispondevano, gli sciacalli chiamavano i vicini: "Conoscete i Ramelli? Allora ditegli che ...". Un mini-corteo appese un cartello di minacce sotto casa: fu chiamata la polizia, che lo tolse. Esasperata la famiglia Ramelli si fece cambiare il numero di telefono e, piano piano, i persecutori si placarono.
    La deposizione di Anita Pozzoli Ramelli è durata un quarto d'ora. Il suo sguardo non si è mai incontrato con quello degli imputati, seduti su una panca al lato della gabbia, che a tanti anni di distanza dall'assurdo delitto sono diventati bravi padri di famiglia, in maggioranza non fanno più politica, e probabilmente per quel cieco gesto di violenza oggi provano un pentimento sincero. Lo hanno testimoniato alla madre della loro vittima con quella lettera - scritta in carcere - che ad Anita Ramelli è sembrata giustamente tardiva. Perché - lo ha affermato lei stessa - la madre di Ramelli non cerca vendetta, ma non può neppure dare il suo perdono. Vuole solo giustizia.
ENRICO BONERANDI


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