Archivio Sergio Ramelli

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La Repubblica, 27/3/1987

Non volevamo ucciderlo...

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Marco Costa, un imputato, racconta il delitto Ramelli
"Urlava e vidi Costantini con quella chiave inglese"

"Non volevamo ucciderlo, volevamo solo fargli paura"

 MILANO - "Ramelli si coprì la testa con le mani, offrendomi la faccia senza difese. Cercai di togliergliele dal viso, quelle mani: avevo paura di sfigurano, di rompergli un dente. Ci riuscii, e lo colpii al capo. Non so con quale forza, ma non si stordì, continuo a urlare. Cercò dì scappare... ma inciampò nel motorino e cadde, e così anch' io sopra di lui, carponi. Lo colpii ancora con la spranga, non so dove, al corpo, al braccio forse. Dall'alto, da una finestra, una donna cominciò a gridare, urlava anche Ramelli, diceva basta basta... Nascosi la faccia tra le mani, per non essere riconosciuto, e in quel momento vidi Costantini accanto a me, con la chiave inglese....~.


Le fasi dell'aggressione
La voce monotona di Marco Costa, amplificata dal microfono, risuona nella grande aula di Assise e mette i brividi. L'esecutore materiale dell'omicidio Ramelli (insieme a Giuseppe Ferrari Bravo) è un uomo alto e sottile di 32 anni, lunghi capelli a riporto a coprire la calvizie, occhialetti e aria da seminarista: è stato lui, con la sua confessione, a incastrare gli ex-compagni, e ora ricostruisce le fasi dell'agguato al ragazzino del Fronte della gioventù come se sì trovasse di fronte a un sacerdote. "Vuol fermarsi un attimo?". gli chiede il presidente Cusumano. "No - risponde Costa - Parlare mi fa bene".
Dolore, pentimento, vergogna e senso di colpa Costa li ha manifestati pubblicamente in aula verso la famiglia Ramelli, sostenendo che questi sentimenti, pur in modo contraddittono, gli si accavallarono in mente già a quell'epoca. Fatto sta che, al contrario di molti coimputati, la sua storia politica violenta non finì con la morte di Sergio Ramelli: un anno dopo, nel '76, lo si ritrova tra gli assalitori del bar di largo Porto di Classe, e poi tra gli "amanuensi" che riempivano schede su schede sulle abitudini personali degli avversari per fare "archivio". "Agivo nella speranza di una società migliore, senza violenza, ma poi, guardandomi in uno specchio immaginario - ha aggiunto Costa - ho capito che ero diventato un terrorista, non quello che volevo essere, ma quello che volevo colpire".
Da ragazzino Marco Costa aveva militato in Gs, il gruppo cattolico da cui poi nascerà Cl, poi passa ai Cub e ai comitati di agitazione di Avanguardia operaia. Studia al Volta, liceo "arretrato", con poca "agibilità politica", vicino all'istituto privato Gonzaga, dove invece è pieno di giovani-bene che giocano a fare i fascisti. E sono botte, occupazione della scuola, scontri con la polizia e pure con altri gruppi di sinistra, come il Movimento studentesco. In quinta liceo Marco Costa compra la sua prima chiave inglese, e quando si iscrive a medicina, l'anno successivo, entra nel servizio d ordine: "Eravamo una compagnia affiatata, si giocava a pallone... " E si arriva a Roberto Grassi, responsabile a Città Studi, che propone l'azione punitiva contro Ramelli: "Gli risposi che ne avrei parlato con gli altri. In realtà nessuno se la sentiva, ma accettammo perché altrimenti ci saremmo sentiti in difficoltà. Mi fu fatta vedere una foto del ragazzo, e Brunella Colombelli mi accompagnò in macchina dove Ramelli appoggiava il motorino, vicino a casa".

La lunga fuga
"Il 13 marzo ci trovammo in università. Grassi decise che toccava a me colpire il ragazzo e chiese se c'era un volontario per affiancarmi. Si propose Costantini, ma Grassi rifiutò perché lo considerava un gasato. Fu scelto Ferrari Bravo: era tranquillo e dava garanzie. La consegna era di "inibire" Ramelli, procurargli delle ferite e basta". Mentre il resto del commando si apposta, in via Palladini rimangono Costa e Ferrari Bravo: "'Dopo qualche minuto, vidi che arrivava Ramelli in motorino. Diedi una gomitata al mio compagno e attraversai la strada. Guardai Ramelli negli occhi e mi resi conto di una cosa: prima i fascisti erano un simbolo odiato, ma in quel momento davanti a me avevo un uomo. Intuivo la sofferenza che già stava provando, avrei voluto andare via, ma nascosi la mia coscienza sotto l'ideologia e mi feci avanti".
Indirettamente, Marco Costa ieri ha scaricato la colpa della sprangata omicida su Costantini, che è morto tempo fa in un incidente stradale. Quando Costa scappa, Ramelli urla ancora, e Costantini è arrivato vicino a dar man forte con la sua chiave inglese: "Tornati in università, mi mostrò la sua chiave, che aveva una punta ai sangue. Decidemmo di pulirle tutte, per cancellare anche le impronte digitali". Dopo la morte di Ramelli, inizia per Costa "una fuga durata tanti anni, e che spero si fermi ora": non riesce più a urlare lo slogan "Morte al fascio", evita di intrupparsi nel folto del servizio d'ordine durante le manifestazioni. Ma l'anno seguente partecipa all'azione contro il bar di Porto di Classe: "Ma come servizio d'ordine dì medicina, il nostro compito era di soccorrere eventuali feriti, tenendoci 200 metri lontani dal bar".
A questo punto, in aula, c'è stato il primo diverbio tra il presidente e i legali. Cusumano ha chiesto che fossero portati i "corpi di reato", e cioè le chiavi inglesi, l'avvocato Isolabella si è opposto Con tutte le sue forze. Ma le massicce Hazet 36 hanno infine brillato sul tavolo della Corte: "No, la mia era una Beta 35, più piccola e leggera - ha detto Costa. - Lei mi domanda come potessimo usare questi arnesi e pensare di non uccidere,e io le rispondo che centinaia di giovani, e pure io, sono stati colpiti e non sono morti. Scegliendo questi 'strumenti', e non le pistole, si pensava dì evitare il peggio...".

Enrico Bonerandi

  
   
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