Archivio Sergio Ramelli

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L'Unità, 17/3/1987

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Quanta voglia di rimuovere quelle spranghe

In fila per essere pubblico al processo Ramelli: sono le 9 e al Palazzo di Giustizia c'è poca gente, praticamente la stessa di tutti i giorni. Al primo piano davanti alla seconda sessione di Corte d'Assise, nel lugubre androne. la gente e più folta. Saranno cinquanta. Ci sono i giornalisti, la televisione e gli avvocati con la toga sotto il braccio. E un chiacchiericcio dimesso, un'atmosfera da Palazzo di Giustizia. I carabinieri hanno transennato l'ingresso dell'aula, registrano nomi e documenti, aprono borse e passano il metal detector lungo i corpi. Tutti parlano di qualcos'altro.
    Ore 10: c'e sempre la televisione e l'inquadratura è sempre la stessa. Tra i quotidiani che circolano il Corriere è al primo posto, segue Tango con l'Unità e qualche Gazzetta dello sport. È lunedì. Dei processo non parla nessuno. Arriva un ragazzo e dice: "Son passato da via Mancini, una marea, saranno diecimila...". Non gli risponde nessuno. La maggioranza è composta di donne. Sono arrivate altre persone: a contarle non saranno cento.
    Ci sono anche alcuni parlamentari e dirigenti di Democrazia proletaria. Fanno gruppo a parte. Viene distribuito, non a tutti, un comunicato stampa del Comitato 10 anni dopo: vi si chiede che questo processo non sia un processo alla storia, criticano i giudici istruttori Salvini e Grigo per il tentativo di "costruire un maxi processo ad una fantomatica banda armata terroristica", invitano la stampa a non esagerare e non cercare "in questa inchiesta la possibilità di ripulire la coscienza sociale della nostra città dal ricordo di quegli anni dove si respirava aria di rivoluzione". Si legge una disperata ansia di prendere le distanze e di dimenticare: "Ora il processo è finalmente iniziato e di fronte alla giustizia ci sono solo gli imputati con la loro storia personale, con la loro vita attuale e il loro futuro". I comunicati spariscono nelle tasche e nelle borse. E tutti riprendono a discorrere dì tutto. Son facce di anni lontani e non parlano di ricordi, non vogliono ricordare. La rimozione è collettiva.
    Ore 10.30. C'è sempre la fila, c'è sempre la televisione. Quando è il mio turno il carabiniere chiude la transenna: non c'è più posto. Sono passati in 45. Capanna non c'è. Mi dirigo alla porticina laterale dove entrano avvocati e giornalisti e finalmente alle 11.45 sono in aula. Si dice che il processo sarà rinviato. L'aula è piccolissima e piena. Alcuni giornalisti si sono infilati garruli nella gabbia riservata agli imputati. Gli avvocati siedono sui loro scranni e gli imputati sono seduti su una panca in fondo. Incrocio lo sguardo della mamma di Sergio Ramelli, ha gli occhi arrossati, mi fissa a lungo per vedere se mi conosce: si mette a posto gli occhiali e la sciarpa azzurra che infila nella pelliccia marrone.
    Ferrari Bravo nasconde il volto fra le mani. Giovanni Di Domenico non vuole primi piani: ". È il vostro lavoro, ma ormai ci avete fatto mille foto. Per favore, non si può smettere? Almeno i primi piani non fateli...". Si copre il volto con una mano, poi la toglie e si siede sulla panca. I fotografi sparano mille clic. E continuano imperterriti.
    Avvocati e giornalisti chiacchierano, i fotografi fotografano. Gli imputati stanno seduti sulla panca e non parlano. Ore 11.10 entra il presidente della Corte e entra il pubblico. Alle spalle della Corte un truculento ed enorme bassorilievo: è un terribile angelo vendicatore che tiene lo spadone sguainato e puntato sul corpo riverso di un uomo. Un imputato fissa il bassorilievo. Al posto di quella spada potrebbe esserci una chiave inglese.
    Il Presidente chiama i testi. Quindi scusandosi annuncia che farà l'appello dei 25 imputati. Li chiama uno per uno e loro rispondono declinando anche il nome degli avvocati difensori. Siamo tutti in piedi. E gli imputati ci guardano per capire chi siamo e io li guardo cercando di indovinare come erano dodici anni fa, quando c'era un corteo alla settimana, la chiave inglese non era solo uno strumento di lavoro, quando usarla contro gli avversari era considerato un atto politico e comunque un gioco impunito. La madre di Sergio Ramelli guarda fisso il giudice e non si volta. Il tono della voci degli imputati è dimesso e i volti in quell'aula piena si assomigliano tutti. Fuori la rimozione continua ma il processo per l'omicidio di Sergio Ramelli, un giovane neofascista ucciso a sprangate dodici anni fa, è iniziato.

Silvio Trevisani

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