Archivio Sergio Ramelli

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L'Unità, 27/3/1987

Gridava, scappava e io colpivo.

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Milano, la drammatica testimonianza di Marco costa che nel '75 uccise a sprangate Sergio Ramelli, neofascista

Gridava, scappava, e io colpivo

L'ex di Avanguardia operaia è oggi un medico trentaduenne - Dopo il delitto altre "azioni" come l'assalto a un bar frequentato da gente di destra - "avevano paura di un colpo di Stato". In aula le chiavi inglesi con cui venne finito il giovane - "Centinaia di persone sono state colpite così e non sono morte"

Milano - "Credo che il solo modo che ho di risarcire la signora Ramelli sia di farle sapere la verità. Non sarà facile, perché quello che sento oggi si sovrappone a quello che sentivo allora". Marco Costa, medico anestesista, trentadue anni, parla scegliendo con cura le parole. È difficile, ora, figurarsi quel signore distinto dal viso tormentato, nell'atto di sprangare a morte, dodici anni fa, Sergio Ramelli, giovane neofascista, e poi, un anno più tardi, partecipare alla sanguinosa devastazione di un bar "di destra", e ancora, esaurita la stagione violenta, dedicarsi alla sistematica schedatura degli avversari politico per la "campagna di controinformazione". Eppure di tutto questo è imputato e reo confesso. E ora si accinge a spiegare "la verità" della quale si sente in debito con la madre di Sergio Ramelli.
Siamo nel '75, Costa, studente del secondo anno di medicina, è approdato da qualche tempo ad Avanguardia operaia, fa parte del servizio d'ordine. Una decina di giorni prima di quel 13 marzo, Roberto Grassi, responsabile del servizio d'ordine di Città Studi (morto poi suicida) lo avvicina. "Mi chiese se me la sentivo di fare un'azione di antifascismo, cioè di picchiare qualcuno. Gli dissi: ne parlo con gli altri. Ne parlammo. Non ne avevamo una gran voglia, ma ci sentivamo sollecitati a rispondere a quelle sollecitazioni". Vengono mostrate loro le foto di Ramelli, si fa qualche sopraluogo. Arriva il giorno della spedizione. "Restammo pochi minuti ad aspettare - racconta Costa - poi lo vidi arrivare. Lui ci vide, ci guardammo negli occhi. Per la prima volta capii che davanti a me non avevo astrattamente un fascista, ma solo un uomo". La voce di Costa sembra spezzarsi. Il "senso del dovere" ad ogni modo la vince sullo scrupolo morale. "Ramelli si coprì la testa con le mani, lasciando il volto scoperto. Io con la sinistra cercavo di tirargli giù le mani, mentre con la destra lo colpivo. Ramelli gridava, cercava di scappare, cadde inciampando nel motorino che aveva ancora tra le gambe, e io caddi sopra di lui. Una donna da una finestra gridava: Basta! Assassini!Anche Ramelli gridava. Io continuai a colpirlo, non so dove. Poi mi rialzai, aspettai Ferrari Bravo e tornammo nell'auletta di Agraria". In quella base ripongono le chiavi inglesi, cancellano macchie di sangue e impronte digitali. L'indomani, invece del previsto trafiletto sul giornale a proposito di "uno studente aggredito", titoli a sei colonne: "Studente in coma".
    È un momento di sgomento, racconta Costa. Domina la pura di essere presi. I più anziani del gruppo, sconvolti, incominciano ad allontanarsi. Per gli altri, i giovani, passata via via la paura, comincia il senso di colpa. E tuttavia ci saranno, come prima, appostamenti, azioni, e un anno dopo, l'assalto in forze al bar Porto di Classe. "Si trattava di far sentire la presenza della sinistra a certi avventori di destra, e se riavessimo incontrati avremmo anche dovuto picchiarli". Ne picchiarono sette, infatti, e tre finirono in prognosi riservata. La rimozione, evidentemente, è riuscita. "Bisogna ricordare che allora avevamo paura di un colpo di Stato", dice Marco Costa. E ricorda che un suo compagno gli aveva telefonato una mattina, agitatissimo, dicendogli che c'erano i carri armati per le strade. "Poi scoprimmo che era la sfilata del 4 novembre". Il presidente Cuscumano chiede: "Ma a scuola non vi avevano detto che il 4 novembre è festa nazionale?". "Leggevamo più i testi del marxismo che i testi scolastici", replica Costa.
    Intanto città studi si sta trasformando, i fascisti sono spariti. "Ci sentivamo a disagio perché non c'era più nessuno da odiare, ci sentivamo ridicoli con quelle chiavi inglesi".
    Ed eccole in aula, quelle chiavi inglesi scadute a strumenti "ridicoli". Il presidente Cusumano fa portare quei corpi di reato scoperti nell'abbaino di viale Bligny, due "Hazet 36", emblema degli anni delle spranghe. La sua decisione ha scatenato la reazione preoccupatissima del difensore di Costa, avv. Isolabella: "Allora bisognerebbe portare qui tutte le chiavi inglesi di quegli anni!", tuona. Sembra proprio che nessuno ricordi che, anche in quegli ani, migliaia di giovani avevano capito che la violenza non era affatto una scelta inevitabile.
    Ora, davanti a quelle sbarre metalliche, Cusumano chiede: "Ma non vi è mai venuto in mente che questi strumenti potessero fare più male di quanto volevate? E soprattutto, dopo il disgraziato incidente di Ramelli, come si può dire di sì a Porto di Classe?". "Centinaia di giovani - ribatte Costa - sono stati colpiti con questi strumenti e on sono morti. Io stesso sono stato colpito ma non sono morto. Ramelli è morto". Il processo riprende oggi. 
 
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 CDRC Coro drammatico Renato Condoleo
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